SPIRITUS
Il sole della mattina inoltrata ferisce le mie
sottili palpebre perlacee, facendomi riemergere da un sogno di cui non rimane traccia. Quella che mi si prospetta è una
giornata come tutte le altre, niente di più e niente di meno, nulla per cui
valga la pena alzarsi comunque. Mi volto con fatica nell’ampio letto, cercando
di liberarmi delle lenzuola di seta che mi si sono attorcigliate al corpo.
Allungo le braccia verso l’esterno e le mie dita toccano la calotta di vetro che
circonda il letto.
Lentamente disegno un cerchio sulla superficie facendo oscurare la calotta protettiva di qualche grado: voglio concedermi il
lusso di credere che sia ancora notte, solo per un altro po’. Ma l’illusione è
troppo effimera per resistere alle pressioni della mia asettica realtà: un
altro giorno è arrivato, come mi annunciano il calendario luminoso sul vetro e
quello sul plasma di cui è rivestita la parete davanti al letto.
Un'icona verde acqua appare sul vetro
semitrasparente a pochi centimetri dal mio viso, mostrandomi il nome e il viso
della persona che mi sta chiamando e mettendosi a trillare piano. Poi un po’
più forte, poi ancora più insistentemente, fino a che il suono diventa
insopportabile, costringendomi a rispondere. Non appena la voce di Esperanza
Ernez risuona squillante all’interno della capsula, mi pento di non aver
attaccato: - Finalmente! Buongiorno, eh! – esclama la voce della ragazza,
squadrandomi dal monitor con aria esasperata. – Non mettere mai la sveglia, mi
raccomando, hai visto che ore sono? Ti rendi conto che hai degli impegni? Non
posso essere la tua agenda per tutta la vita, ho un'azienda da mandare avanti, nel caso non te ne ricordassi. Hai
delle ore di laboratorio stamattina e sei già in ritardo. Non c’è posto per le
scansafatiche nel mio gruppo, alzati. Spiritus, ORA!
Alzò di poco la testa per guardare l’orologio
gigante che fa scorrere i secondi senza rumore, ma sgridandomi per il mio
ritardo con un indignato lampeggiamento biancorosso. Sono le 9.15.35 e io
dovrei essere in laboratorio già da quindici minuti.
Con un gesto spazientito della mano caccio via la
calotta di vetro e quella si ritira docile dentro la parete.
- Come mai si sono alzate le capsule? C’è stato
qualche problema, questa notte? – domando sbadigliando ad Esperanza.
- Stai scherzando, voglio sperare! Hai continuato a dormire con tutti quei suoni di allarme? Mi hanno svegliato
alle tre così d’improvviso da farmi venire la tachicardia...
- Davvero? - borbotto poco interessata,
scompigliandomi i capelli color magenta e reprimendo uno sbadiglio - io non ho
sentito nulla... cosa è successo?
- Qualche problema nei condotti di areazione,
suppongo. - risponde Esper, riavviandosi un invisibile capello fuori posto
sulla tempia e togliendosi un pelo altrettanto invisibile dal suo tajer su
misura. - Lo sai com’è... mai nessuno che si degni di dare informazioni precise.
Ho chiamato Lorence per indagare: quegli sciagurati della sicurezza non si
sarebbero nemmeno posti il problema, se non ci fossi stata io a mettere una parola.
- Scandaloso. - borbotto, lasciando che il mio tono ironico venga scambiato per uno insonnolito. La mia amica continua, senza quasi aver notato il mio intervento: - Comunque è difficile che dell’aria inquinata
sia arrivata fin quassù, me l’hanno assicurato. Le calotte fanno solo parte del
protocollo. A dire il vero la mia era già abbassata, non si sa mai cosa
potrebbe capitare mentre si dorme, la cosa migliore è avere un controllo
costante.
- Certo, la cosa migliore. – butto lì di rimando,
riuscendo finalmente ad interrompere il suo fiume di parole. Mi tiro in piedi e
mi dirigo verso il bagno, poi un giramento di testa mi costringe ad appoggiarmi
alla parete per qualche secondo, aspettando che passi: sicuramente è dovuto
alla pressione bassa, a sua volta dovuta al fatto che ho dormito troppo a
lungo, dovuto al fatto che odio mettere la sveglia.
- A dopo, Esper. Ti richiamo io. - attacco prima che
abbia il tempo di rispondermi o di lamentarsi per il nomignolo ed entro nel grande bagno. Quando i miei piedi
lasciano il parquet riscaldato e toccano le piastrelle non avverto nessuno
sbalzo di temperatura: quindi il problema di questa notte non ha riguardato il
riscaldamento... oppure è già stato sistemato a dovere. Mi guardo allo
specchio, appoggiandomi al lavandino: quello che vedo non mi piace.
Sciacquo il viso e applico una crema vitaminica per
la pelle che dovrebbe rendere più resistenti i miei tessuti. Ora la pelle del
viso sembra un po’ meno trasparente e malsana, ma le sfumature violacee alla
base degli occhi non si potrebbero togliere nemmeno con un chilo di trucco. Se
zummassi abbastanza lo schermo della specchiera, sono sicura che riuscirei a
distinguere il reticolo di vene e capillari che alimentano la mia fragile pelle
traslucida.
Con un sospiro, mi strofino le mani con il
disinfettante e infilo il mignolo nell’apposito foro al lato del lavandino. Un
microscopico spillo sul fondo dell’apparecchio, così piccolo che lo percepisco
a malapena, preleva una goccia del mio sangue e mi restituisce un responso
luminoso sulla specchiera. In fondo ai miei valori (più o meno costanti) c’è un
rassicurante “Nella norma" per cui posso evitare di essere indirizzata dal mio
medico, relegata in camera sotto la capsula e riempita di integratori e
staminali. Almeno per oggi.
Mi vesto lentamente: tanto, qual'è la differenza tra 30 minuti di ritardo o 60?
Pantaloni e maglietta attillati e
super leggeri che mettono in risalto la mia piccolissima figura snella e
fragile, quasi non ci fossero a ricoprire le mie leggere ossa traforate. Ancora intontita dal sonno ci metto cinque minuti buoni per infilare le lunghe ossa alari che ho sulla schiena nei buchi della maglia.
Do uno
sguardo ai parametri di temperatura esterna, comparandoli con quelli della mia
stanza e decido di prendere una giacca: verde con rifiniture oro, esattamente
come i miei occhi. Infilo gli scarponcini tutelanti che si stringono
autonomamente e subito camminare mi sembra un po’ meno faticoso. Poi prendo il
bracciale identificativo: fino a che non è al mio polso la serratura della
porta di casa non verrà sbloccata. Decido di metterlo al polso destro, perché
l’ho portato per quattro giorni al sinistro e comincia a vedersi la traccia
violacea di un livido circolare. Esco dalla mia stanza e attraverso il
salottino e la sala d’ingresso: non c’è tempo per la colazione e, ad ogni modo, non ho molta dimestichezza con le piastre da cucina, le padelle... da quando mi
sono trasferita in questo appartamento sarò entrata in cucina sì e no due volte, e solo per mettere del cibo che avevo ordinato in un
piatto. Davanti alla porta di casa, imposto la temperatura dei miei abiti
termici sul piccolo display olografico del bracciale id e scorro velocemente il piano della giornata. Proprio come ha detto Esperanza, ancora laboratorio e poi
lezioni di etica medica, nel pomeriggio.
Sospiro e apro la porta... e mi ritrovo Shizuka a
un palmo dal viso. Non faccio in tempo a frenare il gigantesco sbadiglio che
preme per uscire e quindi il mio “buongiorno” risulta piuttosto deformato.
- Buongiorno a te. Sarai contenta di sapere che non
hai nessuna carie e che forse la tua perinectarea è un po’ ingrossata. –
ironizza la ragazza, alzando un sopracciglio blu notte.
- Sì, certo, come se avessi qualcuno da sfamare,
io! La Dea Celeste me ne scampi! – sorrido, passandomi distrattamente la lingua
sul fondo del palato, accarezzando il tessuto teso dei muscoli della così detta “porta del Nettare”.
Shizuka sorride e scuote la testa: lei, che ha due
fratelli e un cugino, ne sa molto più di me in questioni di nutrimento e so per
certo che mi vede come una bambina immatura tutte le volte che esprimo il mio
parere. Solo che, dopo tanti anni, ha rinunciato a farmi cambiare idea, per
fortuna.
“Guarda che è una bella cosa!” mi aveva detto
alcuni anni fa, mentre ce ne stavamo sedute su una terrazza del centosettesimo girone a guardare il cielo
oltre i diversi metri di vetro protettivo: doveva essere la prima volta che
affrontavano l’argomento. “Nutrire un fratello, un figlio... permettere alla
loro vita di andare avanti, anche se in qualche posto lontanissimo da te ti fa
sentire completa e... meno sola. Se avrai un figlio maschio lo saprai.”
Beh, certo, molte donne della nostra razza
sarebbero d’accordo che lei... tutte, praticamente. Personalmente non ho la
minima intenzione di nutrire qualcuno nella mia vita, anche se questo dovesse causarmi problemi ormonali e psicologici; anche se, come dicono nei programmi
scientifici, è clinicamente testato che una donna che non ha mai nutrito ha
il 30% di possibilità in più di morire di cancro alla bocca.
Comunque, per questa mattina, pare che Shizuka non
abbia intenzione di farmi una ramanzina, si limita a chiedermi, come ogni brava
amica responsabile: - Hai fatto colazione?
Scuoto la testa, mentre insieme ci avviamo agli ascensori
per andare ai piani ristoranti. Non mi piace molto parlare appena sveglia, e
Shizuka lo sa bene: sono anni che ci conosciamo ormai. Entriamo nell’ascensore
insieme ad altre due donne e ci posizioniamo nei riquadri di sicurezza liberi
sul pavimento che vibrano di flebile luce blu. Non appena ci posiamo i piedi
veniamo immobilizzate: un sistema di sicurezza in caso di scossoni o brusche
fermate dell’ascensore. Perché per noi, una caduta può voler
dire parecchie ossa rotte e svariati anni di convalescenza e riabilitazione. Almeno ho ancora il controllo delle braccia e quindi infilo una mano in tasca, tirando fuori due auricolari wireless usa e getta. Scelgo un brano dalla playlist "Alzataccia forzata" che ho memorizzato nel bracciale Id e alzo il volume, poi offro l’altro a Shizu. Lei lo accetta senza dire nulla, lo toglie dalla bustina ermetica e lo infila in un orecchio, sintonizzandolo con un click.
Lo so, troppo descrittivo... ma penso ce ne sia bisogno. Se non ci state capendo nulla tranquilli, tra poco arriveranno delle spiegazioni serie :)
Nessun commento:
Posta un commento