CAPITOLO 0
Erano le tre del mattino nel piovoso villaggio che si estendeva sulla striscia di terra asciutta tra le paludi a sud-est e, come sempre in quella stagione, pioveva. Anzi, diluviava, come se gli dei stessero scaricando la loro terribile ira sui poveri tetti di paglia delle casupole costruite sulle palafitte. Quella pioggia scrosciante copriva i gemiti e gli urli di una giovane donna sul punto del parto. Suo marito, un uomo che si avviava verso la quarantina, percorreva nervoso lo stretto corridoio su cui si affacciava la porta della camera da letto, in cui si trovava sua moglie. Precisamente la sua nuova moglie, la quarta, una ragazza di appena diciott’anni. Quello che stava per nascere sarebbe stato, tuttavia, il suo primo figlio: con le mogli precedenti infatti non aveva mai avuto fortuna. E doveva essere maschio, a qualunque costo, l’aveva detto a sua moglie “Se non mi dai un maschio ti ripudio insieme alla sfortunata che nascerà!”
Ma lei era parsa subito sicura di avere in grembo un maschio, come se lo sentisse: “So che non potrebbe essere altrimenti” aveva risposto con fermezza.
La levatrice, una vecchia e bigotta donna che non aveva mai lasciato le paludi, nemmeno una volta, incitava dolcemente la giovane donna, stravolta dalle ore di travaglio, a non arrendersi, dicendole che ce l’aveva quasi fatta. Continuava a impartire ordini a una ragazzina, sua apprendista e quella non faceva che correre su e giù per tutta la casa, facendo sobbalzare il futuro padre ogni volta che usciva dalla stanza correndo.
Quel severo e rigido uomo, dovette attendere un’altra buona mezz’ora prima che finalmente, dopo l’ennesimo grido, si sentisse una vagito.
Dopo un primo attimo di esitazione, si precipitò nella stanza: la vecchia levatrice teneva tra le braccia il maschio che lui aveva tanto desiderato.
- Complimenti signore. - sulla faccia rugosa della donna si aprì un sorriso sdentato. - Mai visto una bimbo più sano!
Il neonato era grasso e paffuto. Continuava a piangere disperatamente, dimostrando una certa forza nel combattere col panno in cui la donna lo aveva avvolto, non aveva in testa che una leggera peluria chiara e per il resto era completamente calvo.
Il padre emozionato guardò la moglie protendere la braccia verso la levatrice: - Voglio vederlo. - sussurrò con voce roca e stanca mentre la vecchia si avvicinava.
Quello che era destinato a diventare un momento di gioia e felicità cambiò drasticamente nell’esatto momento in cui la testolina del bambino, passando dalle braccia della levatrice a quelle della madre, si piegò leggermente all’indietro, permettendo alla vecchia bigotta di scorgere qualcosa sotto il mento.
Per poco non lo lasciava cadere a terra, mentre correva dall’altra parte della stanza e si schiacciava contro la parete: - Siamo perduti, tutto è perduto! La grande maledizione ci ucciderà tutti! – urlava sconvolta.
- Cosa dici, vecchia? Sta zitta, abbassa la voce, spaventi il bambino. – disse l’uomo in tono autoritario, come era suo solito.
- Il segno di Shimarek! Il segno maledetto del dio! Moriremo! La sua vendetta è giunta!
Gli sguardi di tutti si volsero al bambino che subito sotto il mento aveva una piccola voglia color caffè che delineava a grandi linee il marchio della leggendaria divinità.
Nessuno di preciso sapeva per quale motivo il dio fosse tanto arrabbiato, ma la leggenda voleva che la sua ira si manifestasse con qualche modo disastroso e sconvolgente ogni settecento anni.
Tuttavia da più di ottocento anni non succedeva più nulla e nessuno credeva ancora alle vecchie leggende.
- Cosa dici?! – esclamò la madre del bimbo, stringendolo a sé – Il mio bambino è perfetto! Quella non è altro che una stupida storiella!
Ma la levatrice si era ritirata in una angolino della stanza, piangendo e continuando a implorare il perdono divino. Poi d’un tratto parve rianimarsi e il volto le si illuminò: - Forse siamo ancora in tempo per scongiurare la catastrofe.
Tutti rimasero in ascolto di quello che aveva da dire la donna e quella continuò in tono solenne:
- Bisogna immolare il bambino, così forse il dio... – non fece in tempo a finire che l’uomo la alzò per la tunica e schiaffeggiò violentemente.
- Fuori da questa casa, vecchia pazza! Non ucciderò mio figlio per farti felice!
- Maledetti! – sussurrò la donna trascinandosi fuori dalla stanza. – Morirete per la vostra ignoranza, state proteggendo la punizione che il malvagio signore a scagliato su tutti noi!
- Sciocchezze – borbottò ancora l’uomo seguendo la vecchia con lo sguardo, mentre si allontanava sotto la pioggia battente implorando le sacre dee di proteggerla.
Guardò la piccola voglia sotto il mento di suo figlio: somigliava molto al vecchio simbolo, lo stesso che i guerrieri si disegnavano sul volto prima della battaglia, per spaventare i nemici... ma non significava nulla, era suo figlio, il figlio che aveva tanto desiderato.
Molto più a nord nella regione, la stessa notte si presentava ventosa ma limpida. Il capofamiglia di uno dei grandi casati nobili dello stato, la famiglia Dorimìa-Haregh, veniva benedetto dall’arrivo della sua terza figlia femmina.
Era una grande benedizione perché la piccola sarebbe stata toccata dalle gentili mani delle Dee Sorelle, divinità benefiche a cui erano stati dedicati diversi templi in tutta la regione.
La bella bimba venne presentata al padre da una serva fidata e, benché fosse già tarda notte, l’uomo mandò a chiamare le sacerdotessa maggiore, una donna magrissima e severa che serviva le dee dall’età di tre anni.
La sacerdotessa arrivò alla villa due ore dopo, ella infatti trascorreva sempre la notte nei tempietto sulla montagna, appena sopra a quello maggiore, in ritiro e la strada per arrivare in città, anche se percorsa a cavallo, era lunga e tortuosa. Inoltre le ci vollero svariati minuti per attraversare le diverse stanze della lussuosa casa nobiliare.
- Illustrissima Sacerdotessa. – la salutò il padrone di casa con un inchino ed ella, in risposta, chinò brevemente il capo appesantito dalla complessa pettinatura e dai lunghi orecchini d’oro.
- Questa è la mia terza figlia, vorrei che voi pensaste al nome da darle e che la accettaste in custodia come iniziata dall’età di tre anni, come di tradizione.
- Certamente, sarà la mia favorita. Diventerà una grande sacerdotessa, piena di bellezza e bontà, come sua madre, e di nobiltà e fermezza, come il nobile signore suo padre. – guardò teneramente la neonata che dormiva tranquilla in braccio al padre e le accarezzò la testolina nera.
Poi aggiunse: - Le sceglierò un nome che risalti tutte queste qualità, tra poche ore verrò io stessa a imporglielo.
- Le sono molto grato, illustre Sacerdotessa.
La donna si girò facendo segno ad alcune serve di farle strada: - Dovere. – rispose e si avviò di nuovo al suo tempio, dove avrebbe passato le prime ore di quel mattino appena sorto a chiedere consiglio alle dee per il nome della loro nuova piccola prescelta.
Nel piovoso villaggio delle paludi, la voce che il figlio di Shimarek si era rivelato fece presto il giro di tutte le bocche: all’alba, di fronte al santuario delle Dee Sorelle era stato trovato il corpo senza cita della levatrice. I curatori del villaggio e i sacerdoti non erano riusciti a spiegare la causa del decesso. Due soli indizi potevano confermare che il suo non era stato un banale attacco di cuore. i suoi occhi spalancati sul volto stravolto erano bianchi, bianchi come quelli di un pesce cotto sul fuoco e, nel fango vicino alla sua mano ancora tesa, la donna aveva tracciato il terribile segno a tre rovesciato con un punto al centro, il simbolo del dio Shimarek.
Non c’era voluta più di qualche ora prima che tutti si convincessero di quando terribile fosse il presagio e anche i genitori del bambino ebbero un brivido di paura davanti a quella morte macabra e misteriosa.
I sacerdoti continuavano a ripetere che i segni non erano mai stati tanto lampanti e la gente si ritrovò presto in preda alla paura. E fu proprio la paura e la devozione a una culto che in fondo non si era mai estinto veramente a far sì che mezzo villaggio si ritrovasse schierato davanti alla casupola dove era nato quel banbino maledetto.
Pretendevano che il bimbo fosse immolato subito e, mentre la giovane donna piangeva silenziosamente stringendo il figlio, il marito prese la decisione di partire.
Radunarono velocemente le loro poche cose e caricarono tutto su un piccolo carretto traballante.
La gente accetto di buon grado quella decisione che allontanava il pericolo dalle loro terre: non gli importava di sapere che fine avrebbero fatto, voleva solo veder sparire quel bambino. Che andassero a morire lontano dalla loro tranquilla e umida vallata.
- Dove andremo ora? – chiese la giovane madre al marito.
- In un posto dove le persone non saranno spaventate da stupide leggende. – rispose bruscamente, irritato: fino a quel momento la vita del padre era stata davvero molto diversa da quella che aveva sempre immaginato e non gli piaceva per niente.
- Ma dove? – insistette la donna, seduta su retro del carretto. – Dappertutto vengono adorate le stesse divinità, tutti finiranno per vedere in quel segno qualcosa di orribile, anche se si tratta solo di leggende antichissime!
- Ci sono luoghi dove dimorano le divinità benefiche... lì sicuramente la gente si sentirà rassicurata dalla presenza di tanti sacerdoti, non verrà presa in considerazione la maledizione del dio Shimarek.
- Al nord ci sono moltissimi templi! – suggerì la ragazza.
L’uomo assentì con un breve cenno del capo: - E nord sia, allora.
Uno
- Signorina! Signorina, la prego, non scappi, così si rovinerà il vestito!
- L’acconciatura, signorina, non potete presentarvi con i capelli in quello stato, tornate qui, vi supplico!
La bambina, fasciata nel suo vestitino di seta ricamato, correva per tutto il chiostro, nascondendosi sotto i cespugli che le arruffavano i cappelli neri.
Era il suo terzo compleanno, il giorno che avrebbe segnato il suo futuro da sacerdotessa.
Correva da tutte le parti e si divertiva come una matta a vedere le serve che la inseguivano per tutto il quadriportico su cui davano le stanze private del grande palazzo. La supplicavano di fermarsi e di “prendere la cosa su serio”.
Sua madre e le sue sorelle maggiori le avevano spiegato l’importanza di quel giorno, le avevano detto che sarebbe andata in un posto speciale a imparare tante cose belle e che così sarebbe potuta diventare la più grande sacerdotessa di tutti i tempi, se si impegnava e faceva la brava... ma lei era ancora troppo piccola per capire quanto fosse importante per la sua famiglia che lei diventasse la migliore in assoluto. Decise di uscire dal suo nascondiglio, in fondo sua madre le aveva detto di comportarsi bene... appena vide la faccia sollevata delle servitrici però, non resistette, fece una linguaccia e corse di nuovo via.
Poi si bloccò di colpo, sulla gradinata di accesso al portico interno si ergeva la figura imponente e terribile di suo padre.
- Rumila Araya Neii. – esordì l’uomo in tono di pacato e tuttavia spaventoso rimprovero, chiamandola con tutto il suo lungo nome. – Smettila subito di correre e ascolta chi ti deve preparare.
- S-sì, padre. – mormorò piano la bambina, il padre infatti l’aveva sempre messa in soggezione e a volte ne aveva davvero paura.
Le serve si inchinarono scusandosi con il loro padrone, ma l’uomo se ne andò senza degnarle di una sguardo.
Più di due ore dopo, l’intera famiglia con il suo seguito di aiutanti e servitori, si dirigeva verso la montagna, al tempio principale, in una sontuosa carrozza trainata da quattro cavalli neri.
Davanti all’entrata del tempio le sacerdotesse delle dee attendevano il loro arrivo in silenzio, rimanendo immobili ai lati della scalinata, come tante statue che delineavano un corridoio di entrata.
Al centro, in alto, davanti all’arcata torreggiava la Sacerdotessa Maggiore, vestita di un elaborato abito rosso con rifiniture d’oro che le svolazzava intorno lasciando intuire la sua magrezza.
Sul capo aveva una corona di catenelle d’oro che aveva intrecciato nei lunghi capelli scuri.
Salutò cordialmente i nobili e il loro seguito che rimaneva alla base della gradinata.
Malgrado la sua preparazione, la bambina fu molto spaventata quando, così ben fasciata nel suo abito di seta le sacerdotesse cominciarono a dipingerle addosso i simboli divini, intingendo le dita in recipienti di ceramica piedi di colori densi e cremosi. Quando ebbero finito di ricoprirla di simboli la fecero sedere su uno sgabello al centro del portico con sottili e altissime colonne di marmo che precedeva l’entrata vera e propria a cui potevano accedere solo le iniziate.
La Sacerdotessa Maggiore mosse un passo nella sua direzione e le catenelle della sua acconciatura tintinnarono riecheggiando nel silenzio improvviso.
- Terza figlia Rumila Araya Neii, nella nobile famiglia Dorimìa-Haregh – esordì la donna al suo cenno tutte le altre sacerdotesse cominciarono a sussurrare preghiere e incantesimi. – Nascendo le dee ti hanno toccata ed è ore che tu ricambi la loro grazia perseguendo il cammino che elle hanno prescritto per te. Accetti di percorrerlo?
- Sì. – rispose ferma la piccola, mentre i suoi occhi si volgevano velocemente a cercare l’approvazione della madre, che assisteva al rito da lontano.
La somma sacerdotessa si fece porgere un piccolo scrigno ovale fatto di ambra e madreperla finemente incisa e lo posò sulle gambe della bambina. Rumila Araya Neii lo aprì e ne tirò fuori un piccolo libro fitto di scritte che lei ancora non sapeva leggere.
Intorno alla bimba si levarono declamazioni di sorpresa: l’apparizione del Libro significava che le dee avevano intenzione di cominciare a istruirla partendo dalle preghiere e dagli incantesimi.
Ogni volte che veniva iniziata una sacerdotessa, le veniva per prima cosa consegnato il cofanetto del destino ed era lì che esse trovavano gli Strumenti Sacri che guidavano la loro vita e il loro apprendistato. Molto spesso il primo Strumento Sacro che le bambine trovavano alla prima apertura era il Pennello che significava disegno e scrittura, a volte veniva trovato l’Ago ovvero l’oggetto che stava a significare che l’istruzione doveva partire dal ricamo e dalla guarigione e altre volte ancora veniva trovata una farfalla, che rimaneva affianco dell’iniziata fino a che la bambina fino a che questa non avesse imparato a danzare con leggerezza ed eleganza.
Non si sapeva quanti potessero essere in tutto questi strumenti, ma la più grande sacerdotessa della storia era riuscita ad ottenerne ben nove.
Gli Strumenti guidavano le sacerdotesse per tutta la vita, facendo capire loro come indirizzare le loro energie nel modo più gradito alle Dee Sorelle.
Alcune ragazze dovevano concludere lo studio di una “materia” prima di ricevere un altro Strumento, prima che una nuova parte della strada venisse loro illuminata, altre invece, nel mezzo di un tipo di istruzione riceveva un nuovo dono e in questo caso l’iniziata doveva continuare lo studio su entrambe le cose.
Nessuna di tutte le sacerdotesse presenti in quel momento aveva però ricevuto il Libro come primo Strumento, perché era un’istruzione molto complesse per una bambina. La Sacerdotessa Maggiore però rivolse un sorriso rassicurante alla bambina e le disse dolcemente: - Ora stringi il Libro al petto e ringrazia le Dee dal più profondo del cuore.
Rumila fece ciò che le veniva detto e si sentì subito felice e grata di quel piccolo libricino. Guardò il padre: l’uomo le sorrideva e questo la rese ancora più felice: sì, già le piaceva essere una sacerdotessa.
- Ghinàr! – urlò sua madre dalla finestra del secondo piano e il bambino corse immediatamente da lei, ignorando lo sguardo sospettoso della gente ormai lontana.
I suoi genitori avevano scelto di abitare un una casupola un po’ lontana dal resto delle abitazioni della periferia del villaggio nordico in cui si erano trasferiti. In quella regione c’erano moltissimi templi, così tanti che nessuno credeva che il potere del dio Shimarek sarebbe mai arrivato in quello terra, protette dalle Dee Sorelle. Eppure, nonostante queste convinzioni gli abitanti continuavano a guardare con sospetto e timore quello strano bambino. Anche chi non conosceva la sua storia lo teneva a distanza, ma per un motivo diverso. Per quanto infatti la madre glieli tagliasse cortissimi, i suoi capelli rimanevano bianchi e alquanto vistosi. Inoltre aveva gli occhi arancionati, del colore dell’ambra. Qualche giorno dopo essersi stabiliti in qual luogo avevano avuto qualche problema, ma dopo tre anni la gente si limitava a evitarli o semplicemente a ignorarli.
Anche il carattere di Ghinar non era dei migliori: era sempre stato taciturno e timido e a volte un po’ scontroso.
Nel padre la gioia di aver avuto un erede era sfumata in fretta e ora lo degnava a malapena di qualche parola, come se si vergognasse di lui.
La madre lo fece entrare nella stanza del focolare dove stava preparando la cena.
- È quasi pronto. – gli disse e il bambino andò a sbirciare sul tavolo dove lei lavorava, sorridendole, l’unica persona con cui non era mai stato scontroso era la madre.
La porta si aprì subito dopo lasciando entrare il padre che mormorò un saluto svogliato e andò a sedersi al tavolo.
- Come è andata la giornata? – chiese la donna mentre gli serviva la cena.
- Decente. – rispose lui, poi alzò lo sguardo stanco verso la giovane moglie, notando qualcosa che, se non aveva mai notato prima, era staro per la sua completa mancanza di osservazione.
- Cos’hai fatto ai capelli? – le chiese.
Lei si prese in mano una ciocca nera che le sfuggiva dall’acconciatura. – Nulla. – rispose stupita.
L’uomo la avvicinò per vedere meglio, corrugando la fronte: - Hai un capello bianco.
- Oh! – fece lei stupita e un po’ triste, ma poi alzò le spalle accettando l’inevitabile scorrere del tempo. – Beh... capita anche alle donne giovani. – sorrise come sempre e servì da mangiare al figlioletto, per poi passare al suo piatto.
Involontariamente lo sguardo dell’uomo scivolò sul figlio che mangiava sedendosi in ginocchio sullo sgabello per arrivare al tavolo, che tentava di divorare un pezzo di pane più grande della sua bocca. Per un attimo lo fulminò un pensiero terribile, poi però scosse la testa “che cosa stupida” pensò “ sarà come dice lei”.
Ciao Sarah,
RispondiEliminaQuesta storia è molto intrigante spero proprio tu la possa continuare.